Il mio augurio è che le lotte e il successo del passato ci siano di incoraggiamento per le lotte e il successo del futuro“.

La storia dell’Associazione
raccontata dal fondatore PIO SCILLIGO
in occasione dei 25 anni dalla nascita dell’IRPIR.

 

Pio Scilligo

Molti di voi sono allievi della Scuola Superiore in Psicologia Clinica dell’IFREP ed anche amici dell’IRPIR, pertanto oggi, grazie anche alla presenza di varie persone che potranno dire qualche cosa sulle nostre radici, desidero fare il punto così a braccio sulla nostra nascita e su chi siamo.

Dal momento che, fino ad ora, non abbiamo scritto niente, dirò qualche cosa su come siamo nati. Credo, infatti, sia un bene soffermarci a ricordare, non tanto con nostalgia, ma con un senso di gioia, a raccontare quante cose si possono fare quando c’è la voglia di creare insieme. E chissà, ancora, quante cose saremo capaci di fare!

Nel narrare la storia dell’IRPIR dovrò parlare piuttosto molto anche di me e questo per farvi un’idea di cosa mi ha spinto a creare questa istituzione e con essa il “nostro modo di avere un impatto sulle persone che incontriamo”. Sono ritornato in Italia nel ’68, dopo venti anni di assenza e di vita in paesi con culture molto diverse tra di loro. Sono vissuto quattordici anni a Hong Kong, un anno e mezzo a Shillong nell’Assam in India, sei anni in California; tutto questo dopo essere vissuto per dodici anni nella cultura Walser, una piccola cultura che, ogni tanto, guarda in basso verso l’Italia e dice “loro”. Anche io, a volte, dico ancora “voi italiani” e collego questo proprio alla mia esperienza infantile di essere diverso dagli altri al di fuori delle gole delle mie montagne. Dai 12 ai 19 anni mi sono fatto italiano Piemontese vivendo prevalentemente nelle scuole salesiane di Torino Richelmy, Lanzo Torinese, Avigliana, Valsalice e Foglizzo. Ritornato in Italia, avevo dei grandi ideali scientifici, ma una cosa mi colpiva in modo speciale: nelle discussioni tutto sembrava dominato dal normativo. Venivo da un Master in Secondary Education conseguito presso l’Università di San Francisco e un dottorato di ricerca in Educational Psychology conseguito all’Università di Stanford, a Palo Alto. Là avevo imparato a usare con cautela il normativo, imparai ad apprezzare il descrittivo, il rispetto per la scienza, per la diversità di opinione e soprattutto ho imparato a osservare e a pensare molto prima di tirare delle conclusioni su qualsiasi ipotesi empirica. Quando ero a Stanford, Bandura era ancora agli inizi del passaggio da un comportamentismo vicino a quello classico ad altri modi di pensare, come quello sociale di Walters e oggi è così trasformato che a prima vista è un po’ difficile distinguere “la gente di Bandura dalla nostra gente che sceglie, che guarda al futuro e che si crea le stelle che poi segue”. In mezzo a stimoli di questa natura e una vaga sensazione di essere precostruito e precostituito e veloce nel trarre conclusioni su poca informazione teorica, ho toccato con mano, incominciando da me, che “le persone possono essere in un altro modo”. Ero partito ventenne dall’Europa convinto del determinismo genetico e incominciavo a sentirmi trasformabile e creatore del mio futuro, sia pure con una dotazione genetica. L’aspetto chiave che mi ha colpito e trasformato è stata la scoperta, viaggiando e vivendo in culture diverse, che le persone possono cambiare radicalmente, possono essere nate in una condizione e influenzate da esse per poi vivere in una maniera radicalmente diversa. Mi sono reso conto di questo soprattutto nel passare da Hong Kong a San Francisco. A San Francisco c’è una comunità cinese di oltre 150 mila persone, molte di esse nate a Hong Kong o sul continente cinese. Ho potuto notare che i cambiamenti che avvenivano nelle persone erano sostanziali; fu l’esperienza che mi spinse a fare la tesi di dottorato a Stanford su come le persone potevano cambiare i loro valori di base e quali erano i mediatori culturali per tale cambiamento. Studiai i cinesi nati a Hong Kong, ma poi emigrati a San Francisco, gli adolescenti cinesi di Hong Kong non emigrati e gli adolescenti cinesi di seconda generazione a San Francisco. Ho trovato che tutti cambiavano in riferimento al contesto con il quale si identificavano. Per gli adolescenti di Hong Kong, a quei tempi alle prese con la rivoluzione delle Guardie Rosse, i modelli che dava il tono al loro modo di essere erano i genitori; per la prima generazione di San Francisco erano i maestri i modelli principali; infine, per la seconda generazione di cinesi immigrati a San Francisco, i modelli di transizione culturale erano i coetanei.

Mi resi conto, per esperienza diretta, che ciò che le persone imparano e ciò su cui si trasformano, deriva dal rapporto umano di vita e, secondo me, solo secondariamente dalla dotazione genetica. A Hong Kong il rapporto umano significativo e l’autorità significativa erano i genitori perché nella cultura cinese il genitore e l’anziano erano i detentori della saggezza. A San Francisco per gli adolescenti di prima generazione, in piena transizione culturale, il rapporto significativo era costituito dagli insegnanti, le persone che aiutavano a passare la montagna che separava una cultura dall’altra, come la stretta gola che separava la mia valle dal resto dell’Italia, erano i traghettatori che trasportavano le persone da una cultura all’altra. Invece per le generazioni ormai inserite nella cultura locale, i genitori perdevano notevole potere, ed anche i maestri contavano di meno; per questi adolescenti di seconda generazione ciò che dava il tono al modo di essere erano le persone della loro età. Questo è anche quello che avviene nei bambini piccoli, che vivono in famiglie dove ci sono molti fratelli e sorelle, e dove l’apprendimento maggiore sembra avvenga non attraverso quello che fanno i genitori, ma attraverso quello che fanno i fratelli e le sorelle. Nell’apprendimento sociale sembra che abbiano l’impatto più significativo i compagni di gioco, e sappiamo che il gioco è “l’università” dei bambini.

Vi ho raccontato queste esperienze non per caso. Ritornato in Italia mi aveva colpito il fatto che dovevo essere uno strumento per aiutare le persone a fare il loro lavoro. A quei tempi, dal momento che ero già un esperto in dinamica di gruppo, mi chiamavano per fare della dinamica di gruppo, chiedendomi come si dovesse intervenire sui gruppi. Molto presto mi accorsi che implicitamente mi veniva chiesto di insegnare come manipolare gli altri usando strategie di gruppo. Mi poteva succedere di peggio, visto il mio stile dominante paranoide: non mi fu difficile fantasticare che volevano usarmi per apprendere tecniche di gruppo per cambiare le persone in un contesto dove scoprii, attraverso una ricerca, che i miei interlocutori avevano rovesciato i valori di fondo di una istituzione e avrei dovuto collaborare con la dinamica di gruppo per avvallare tale rovesciamento. Eravamo nel 1968 ed ero reduce da università dove il movimento studentesco del free speech verteva già al termine. Mi trovai tra studenti abbastanza fondamentalisti e autorità che mi chiedevano delle vie di uscita. E’ a questo punto che incominciai a pensare seriamente cosa era possibile fare, come era possibile insegnare senza manipolare, insegnare ad essere padroni di se stessi, come avere buoni denti e buon cervello per scegliere e per decidere. Avevo appena pubblicato il libro sulla dinamica di gruppo nel 1973 e un anno dopo scrissi un libro di esercizi di gruppo, ma la prima parte conteneva un’analisi del contesto sociale dell’impatto che avevano sulle persone i gruppi di sensibilizzazione. Previdi che la prospettiva verso il futuro lontano, quello delle religioni, si sarebbe affievolito e che anche le ideologie avrebbero perso peso e sarebbe rimasto il presente per il presente con le persone aperte al “primo occupante profetico” su un terreno seminato di tutto e subito senza prospettiva né passata né futura. Con tutti i cambiamenti che io stesso attraversai, decisi di dare il mio contributo per stimolare senso critico e prospettiva umana.

Ritornai in California tutte le estati alla ricerca della soluzione. Scopersi presto un centro che mi sembrava desse molto spazio alle persone: era il centro Esalen a Big Sur, scopersi il Centro per lo Studio della Persona di Rogers a La Jolla e quasi contemporaneamente l’Istituto di Gestalt di San Francisco. Dal momento che ero stato per sei anni in California e non mi ero accorto di tutto questo, mi sono incuriosito e mi sono detto “ vado, vedo, scelgo e ritorno”. Non mi ero neppure accorto del Mental Research Institute di Palo Alto nonostante che per due anni e mezzo ci passavo a cinquanta metri almeno cinque volte alla settimana attraversando University Avenue nell’andare a seguire le lezioni a Stanford. Avevo scoperto che c’era molto da imparare al di fuori delle università.

La curiosità e la scoperta dei suddetti centri mi convinsero che in giro per il mondo c’erano altri modi di fare le cose e così mi è venuta la voglia di fare esperienze di gruppo in una maniera diversa, così che la gente potesse diventare consapevole di se stessa. Già avevo fatto un piccolo esperimento qui a Roma nel 1973 quando venni invitato ad animare un gruppo abbastanza grande di suore, una cinquantina, in via Marghera. Fui accompagnato da Antonio Capodilupo, che adesso lavora alla ASL di Latina, ed insieme, da novembre fino ad aprile, abbiamo fatto degli incontri usando gli esercizi di Nati per vincere, allora non ancora tradotto, e il manuale di Jongeward. Credo sia stato il primo gruppo sistematico in cui sono stati usati i concetti dell’Analisi Transazionale. Credo che allora incominciai a cogliere come le persone possono riflettere su se stesse, possono scoprire quello che è importante per loro e quindi, possono fare delle scelte.

Finalmente decisi di ritornare in California, con le informazioni che avevo, proprio per vedere che cosa facevano là, e se c’era qualcosa da poter “spigolare” e che mi aiutasse a risolvere i miei enigmi di manipolazione.

Nella primavera del 1974, andai a San Diego all’istituto di Rogers, dove feci una settimana residenziale di cui rimasi soddisfatto. Mi aveva colpito la delicatezza con cui trattavano le persone; mi ricordo, ad esempio, che al gruppo venne una schizofrenica; l’accolsero in una maniera molto semplice, era zitta, zitta…… non diceva niente…., ma ad un certo punto, dopo circa due giorni di permanenza, disse: “Voglio dire qualcosa” e le abbiamo lasciato tutto il tempo che voleva, e lei si aprì nel gruppo e si è sentita accolta, capita, compresa, protetta, stimata e libera. Ho capito, in quel momento, che lì vi era un gruppo che non manipolava, un gruppo che lasciava crescere, un gruppo che permetteva alle persone di essere quello che volevano essere.

Dopo questa esperienza tornai in Italia, perché dovevo progettare una scuola di specializzazione, ma non conclusi nulla. Tuttavia avevo già un “piano di esplorazione” e in agosto andai in Olanda per fare altri dieci giorni residenziali, nuovamente con i rogersiani. Questa esperienza fu un po’ più insolita e incominciai ad essere criticamente selettivo. L’esperienza mi era stata utile per capire ancora una volta che tutto può essere usato in due versi: per il bene o per il danno.

L’anno seguente, nell’estate del 1975, feci un mese residenziale con l’Istituto di Gestalt di San Francisco.

Di quell’esperienza ricordo che ero stanco morto perché si lavorava tutto il santo giorno ed eravamo liberi solo il fine settimana. Lì incontrai un collega di origine tedesca che mi nominò Bob Goulding ed anche Simkin, dicendomi che per imparare delle cose bisognava andare da persone precise e non tanto nelle istituzioni. Per quanto riguardava Simkin avevo conferma diretta di cosa si imparava da lui, visto che l’istituto di Gestalt di San Francisco era gestito da suoi antichi allievi. Per quanto riguardava Bob, avrei esplorato.

Dopo aver incontrato anche i gestaltisti, nell’estate del ’75, andai a trovare Mary Goulding a Mount Madonna, dove Bob e lei gestivano un istituto di Analisi Transazionale. Riuscii a iscrivermi a una settimana residenziale condotta da John McNeel e Kerfoot.  Fu in quella occasione, a fine settembre del ‘75, che decisi di iscrivermi all’Associazione Internazionale di Analisi Transazionale (ITAA), probabilmente il primo tra gli italiani. L’EATA non esisteva ancora.

L’esperienza mi piacque, come, nel suo insieme, mi piacque il mese residenziale di Gestalt a San Francisco.

Ritornai nuovamente in Italia e mi sembrava di aver scoperto delle idee, delle persone, delle istituzioni, che avevano spazio per le persone. Dico questo sottolineando il fatto che, a quei tempi, mi ero “imbattuto” nei gestaltisti, che non sono normativi, ma ritengo sia stato utile crederci per un po’, perché grazie a ciò mi sono reso conto, successivamente, di cosa non mi andava più bene. Tuttavia avevo bisogno di capire di più e così tornai in California per tre anni consecutivi, tutto il periodo estivo dal ’76 al ’78, perché avevo intravisto nei gestaltisti un possibile ambito da esplorare. Mi sono indottrinato bene, perché feci il mese residenziale estivo di Simkin del ’76, poi quello del ’77 ed infine quello del ’78.

A Big Sur, vicino alla casa di Simkin, c’era Esalen, che era nella iniziale lista di ambienti da sperimentare. Feci due workshop là.

Simkin mi aveva suggerito di andare e vedere anche se era in competizione con il direttore di Esalen; mi disse comunque di andare e di vedere che cosa facevano. Là feci un po’ di feldenkrais, una ginnastica autodiretta inventata da un fisico ebreo che aveva i muscoli atrofizzati e che, con la sua ginnastica e la sua pertinacia, aveva recuperato l’uso delle braccia e delle gambe. Mi colpì molto quando Simkin mi disse: “Quelle sono le cose da imparare, dove tu usi le tue risorse e diventi padrone della situazione”.

Non ritornai più ad Esalen, mi sembrava un ambiente del puro qui e ora, che secondo me aveva bisogno di un po’ di passato e di un po’ di futuro, almeno un po’. Infine, sempre quella stessa estate, andai a fare un altro mese residenziale con i Goulding. Era proprio un dacci dentro fino in fondo! Ma come se non bastasse, a settembre feci due settimane di terapia della famiglia con i MacClendom.

Nell’esperienza con Bob e Simkin mi ha divertito scoprirli bravissimi, che si stimavano reciprocamente e a Bob non stava bene che Simkin si arrabbiasse e a Simkin non stava bene che Bob, bravo terapeuta come era, rovinasse tutto alla fine con i tre cerchietti. Così imparai che si potevano ammirare le persone e si poteva non essere d’accordo con il modello che usavano.

Dopo gli incontri del ‘74 e del ’75, ho iniziato a pensare di fare dei gruppetti. Nel 1976 ho iniziato a lavorare con un piccolo gruppo, le “radici” di questa Istituzione. C’erano Mariangela Figini, Susanna Bianchini e c’era una persona a noi preziosissima, Lucia Caredda, che ci ha convinti più tardi ad iniziare l’attività a Cagliari. C’era inoltre Raffaella Leone Guglielmotti. Tutte queste persone, insieme ad altre, sono state le “prime”, quelle con cui noi abbiamo iniziato a sperimentare come fare formazione.

Inizialmente facevamo i gruppi per due ore, il giovedì sera. Un poco alla volta ci siamo resi conto che due ore erano troppo brevi e siamo passati alle mezze giornate e da quelle, sempre sperimentando e cercando la modalità che ci permetteva di lavorare bene, siamo arrivati alla modalità del fine settimana.

Il gruppo si è infoltito nel ’77 con l’arrivo di Serena Barreca, Mara Scoliere, Carla De Nitto, Lucia Fruttero, Maria Luisa De Luca, Daniela Marletta, Maria Teresa Tosi. Eravamo un gruppo ormai dove c’erano gli anziani e le nuove leve.

Nel frattempo continuai le mie visite in California. Andavo in California a confrontarmi sui dubbi che emergevano nell’esperienza con i gruppi qui a Roma. Feci un workshop con Milton Erikson a Phoenix nel Texas. In quell’occasione scoprii di essere “figlio unico” pur essendo il nono di dodici fratelli. Iniziando quelle giornate Milton disse: “Voi non lo sapete ma tra di voi ci sono dei figli unici e non lo sanno”. E’ stato come un fulmine a ciel sereno! Improvvisamente mi sentii uno dei due figli unici nel gruppo. Ero l’unico di dodici che aveva varcato definitivamente le gole rocciose della valle, l’unico che aveva studiato, l’unico che si era fatto prete, l’unico che si era immedesimato con diversi popoli, l’unico che si era messo sulle vecchie rotte californiane del padre. Insomma ero il figlio unico di sette fratelli e cinque sorelle. Milton Erikson era una persona tanto semplice quanto intelligente; godeva nel far vedere i suoi ricordini che teneva nel soggiorno. Facevamo il workshop a casa sua e, dopo il pranzo, ci descriveva il suo soggiorno con i simboli delle sue esperienze. Nella sua libreria vidi il libro della Struttura della magia ed i libri che Bandler e Grinder avevano scritto sul linguaggio ipnotico di Milton; gli chiesi se si sentisse in qualche modo rispecchiato dalla descrizione di quei libri. Rispose: “Ma ….loro dicono che faccio quello!”. Racconto questo episodio per sottolineare come mi aveva colpito la sua candida semplicità, e in tale semplicità traspariva il suo spirito profondamente creativo. Le sue soluzioni e i suoi consigli erano alla portata di mano dei suoi clienti. Un ragazzo messicano era andato da lui perché voleva fare terapia, e Milton gli disse: “Ma vuoi proprio fare terapia? Per trovare un lavoro come si deve? Sai, lì in fondo alla strada c’è un bar; perché non vai lì e ti presenti e dici al padrone che sei disposto a lavorare lì gratuitamente e poi può decidere se prenderti o no? Fai bene le cose e poi vedi se ti piace”. Tornò dopo dieci giorni e l’avevano assunto e lo pagavano profumatamente. Pensai che quella era terapia efficace!

Milton sapeva cogliere cosa era importante per la persona, non gli interessava essere formale, inserire la gente entro schemi precostituiti; coglieva quello che la persona era e la aiutava ad espandersi, ad avere orizzonti ampi e semplici. Era davvero il Milton che da ragazzo faceva entrare i vitellini in stalla tirandoli per la coda. Lo scopo di base del suo linguaggio ipnotico è quello di aprire l’inconscio e di permettere alla persona di rompere gli schemi, di vedere le alternative e, secondo me, di cogliere ciò che la natura ha costruito nei secoli.

Finii il training con Simkin a Big Sur, tre mesi residenziali; feci un altro mese estivo con Bob e Mary Goulding, e poi ancora un mese intero con i rogersiani a La Jolla. Con i rogersiani ho imparato molto e mi sono anche ribellato, perché per due anni avevo condotto gruppi estivi come facilitatore a La Jolla con il gruppo di Rogers in incontri residenziali all’Università della California di San Diego e mi resi conto che in alcune attività c’era bisogno di struttura. Ad esempio, mi ricordo una persona che era venuta nel gruppo e che non aveva proprio nessuna struttura; voleva solo un contatto fisico, come una massa passiva senza spina dorsale. Insistetti con gli organizzatori che il loro metodo mi sembrava valido per persone relativamente bene strutturate, ma ritenevo che alcune persone avevano bisogno di paletti e dovevano imparare dove stavano i confini dal momento che mi sembrava che non li avessero. Mi dissero che avevo ragione, però questo era il loro modello. Tra me e me risposi: “Al diavolo il modello, prima vengono le persone!”. Ho avuto qualche dubbio che avessero capito bene Rogers o forse in qualche modo io non avevo capito loro.

Per concludere, sperimentai la bioenergetica, sia a livello di gruppo e sia a livello di terapia individuale personale per poi non sceglierla.

Ancora oggi la ritengo importante per le persone che hanno problemi di strutture muscolari contratte per eccesso di strutturazione psicologica. Per tali persone ritengo che la bioenergetica abbia qualcosa di importante da offrire ma ritengo che la persona abbia mille sfaccettature e siano necessari mille modelli per farle giustizia. Così conclusi il mio giro di esperienze con due workshop al Mental Research Institute di Paolo Alto con Watzlawick, con Fisch e con Weakland. Watzlawick mi insegnò ad apprezzare e a non adorare l’ipnosi perché ciò che contava era la motivazione della persona, l’ipnosi era solo tecnica aggiuntiva. Con Fisch e Weakland imparai che il confronto con altri colleghi era essenziale nell’affrontare la complessità umana. Con un altro docente del centro, di cui non ricordo più il nome, imparai a osservare i movimenti del corpo per scoprire come le persone gestivano il dolore. L’estate del ’78 conclusi il mio pellegrinare Californiano alla ricerca di una soluzione. Conclusi che non c’era una soluzione, bisognava continuamente osservare e creare e verificare la creazione.

Nel mezzo di queste esperienze formative nel ’77, io con Carla Del Miglio e Raffaella Guglielmotti abbiamo creato un’associazione chiamata IGAT, Istituto di Gestalt e di Analisi Transazionale. Quella è stata la prima radice formale del nostro percorso storico che poi sfociò nella creazione dell’IRPIR.

Nel 1976 avevo chiesto alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Ateneo Salesiano di aprire presso l’Università una attività clinica che si occupasse della formazione. La proposta non andò in porto, anzi avevo creato perplessità in qualche collega perché a loro non era chiaro cosa facessi negli incontri di gruppo. Non riuscii a far passare le mie idee perché i miei inviti di venire e vedere cadevano nel vuoto. Ci vollero diversi anni prima che un collega dell’Università Salesiana venisse a vedere cosa facevamo e incontrasse le persone creative che facevano i gruppi con me. Ne rimase entusiasta, soprattutto per il senso di umanità e di responsabilità etica con cui lavoravamo. Oggi quella persona è vescovo a Rotterdam in Olanda.

La situazione di sospensione per creare qualcosa di stabile in ambito accademico si protrasse per due anni. Sperimentavo difficoltà al sentirmi continuamente osservato a distanza senza avere il privilegio di poter far vedere cosa facevo. L’uscita dall’incertezza fu un colpo di Provvidenza. All’Ateneo Salesiano c’era un rogersiano molto bravo. Quando divenne uno dei responsabili della formazione nel mio ordine religioso, gli spiegai quale era la situazione, cosa facevo e le difficoltà che incontravo nel portare avanti un progetto che ritenevo altamente educativo in ambito universitario. Mi disse: ”Beh, chiedi ai superiori di darti il via libera di fare l’attività altrove”. Era arrivato il momento giusto per questo input. Chiesi subito ai grandi capi ed ebbi senza difficoltà il via libera e mi dissero: “Fai, però, appena puoi, dà l’attività in mano ai tuoi collaboratori e tu ti ritiri….”.

Oggi, un poco alla volta mi sto ritirando perché ho trovato dei collaboratori favolosi.

Ho raccontato questo, perché mi sono accorto che quando nelle istituzioni si ha a che fare con i grandi leader, a volte, questi hanno una grande apertura e colgono le possibilità, ma è necessario anche dare spiegazioni, dicendo loro cosa si fa, in che modo lo si fa e dove probabilmente si vuole arrivare e come si prevede di gestire i rischi implicati. Ho trovato che questo è vero in tutti gli ambienti, compreso quello della Sapienza dove introdussi con fatica e successo i semestri e facendo iniziare l’anno accademico a ottobre anziché a novembre.

Con un via libera dall’alto, perché non ero un ribelle, ho iniziato a fare le cose fuori dell’ambiente universitario e voglio raccontarvi un poco quali sono state le peripezie. La prima sede esterna è stata in un seminterrato in via Conca d’Oro, da cui siamo andati via pochi mesi dopo per una serie di difficoltà sorte dalla fama che quell’ambiente aveva per attività precedenti. Di lì siamo arrivati in via Tagliamento, ospitati generosamente in un appartamento al terzo piano appartenente a ****. Anche lì siamo rimasti per poco tempo. Era il tempo dei brigatisti rossi e siamo stati presi un po’ per brigatisti rossi, perché anche allora gli allievi lasciavano i cancelli aperti e il via vai spinse le persone a mettere dubbi sulla nostra identità. Dopo la minaccia di farci sloggiare con gli avvocati ci siamo trasferiti in una villetta vicino a Castel Madama, poco lontano dall’uscita dell’autostrada. Restammo lì per circa un anno.

Nel frattempo, nel 1981, era nato l’IRPIR, e nell’86 lo affiancammo con l’IFREP. Solo nel ’93 abbiamo creato il nuovo IFREP, che esiste oggi. Oggi non esiste più il vecchio IFREP.

Nonostante questi cambiamenti formali di natura associativa, eravamo sempre noi, gli stessi pieni di entusiasmo e con buone stelle guida davanti a noi. A cominciare dagli anni ’80, la gente ha incominciato a conoscerci attraverso gli allievi che frequentavano i nostri corsi che gradualmente venivano strutturandosi.

Nel ‘78 e nel ‘79, nacque la terza generazione di persone che hanno dato un grande contributo al nostro sviluppo: Maria Gioia Milizia, Maria Grazia Cecchini, Luana Sevirio, Chiara Bergerone, Angela Maciocchi, Maria Ferro ed altri. Le persone con cui vi trovate in buona parte oggi, sono quelle della prima, della seconda e della terza generazione anche se poi molti altri si sono aggiunti e così ci siamo moltiplicati.

Nell’87 siamo andati a Pordenone ed abbiamo aperto una sede presso il centro IRIPES dei Salesiani e la collaborazione di don Giorgio Tomolo e don Ernesto Gianoli che avevano fatto il quadriennio da noi a Roma dopo che ci eravamo trasferiti in Via Monte Fano. Da Pordenone abbiamo dovuto “traslocare” perché, come in tutti i posti, arrivavano nuovi dirigenti che avevano vedute nuove.

Imparammo a fare traslochi come faceva don Bosco con il suo Oratorio; egli diceva che i cavoli trapiantati crescevano meglio e noi siamo cresciuti attraverso diversi trapianti. Siamo andati a Mestre dove, per diversi anni, abbiamo lavorato negli alberghi, quasi sempre al Bologna di fronte alla stazione.

Nel ‘91, sotto insistenza di Lucia Caredda, siamo andati a Cagliari, ed anche lì abbiamo aperto la prima sede presso i Salesiani di via Fra’ Ignazio grazie all’accoglienza di don Paolo Piras e don Medde. Di là abbiamo traslocato dai Salesiani di Selargius grazie alle larghe vedute di don Varese fino al suo trasferimento che segnò anche il nostro trasloco a Piazza Dettori. Ho imparato che i cavoli trapiantandosi davvero crescono e alla fine ci vuole un campo tutto loro per fare buone radici.

Nel ‘91, in con la collaborazione di Antonio Arto, Eugenio Fizzotti, e Herbert Franta, insistetti per la terza volta per aprire una scuola di specializzazione presso la Facoltà di Scienze dell’Educazione; bisognava cogliere la palla al balzo, perché era il periodo in cui erano già in vista i riconoscimenti delle scuole. Riuscimmo finalmente a creare la Scuola Superiore di Specializzazione dell’UPS (SSSPC-UPS), sognata per quindici anni. Abbiamo aperto la scuola con l’intesa di una collaborazione reciproca: i nostri allievi dell’IFREP si sarebbero iscritti all’UPS, ottenendo quindi un diploma universitario, noi avremmo contribuito a dare i docenti, e Franta avrebbe formato un gruppo di nostri docenti. Il programma collaborativo fu pubblicato in Polarità.

Dopo circa due anni, la vita divenne difficile: avevamo due sedi fuori Roma e una a Roma. La nostra istituzione era grande, l’FREP, era grande e si verificò un enorme disagio a causa di continui e improvvisi cambiamenti di programma presso la scuola dell’UPS; la condivisione delle idee e delle risorse divenne molto difficile. Nel ’94 la collaborazione con l’UPS fu interrotta per nuovi iscritti perché due sedi dell’IFREP erano fuori Roma. La scuola dell’UPS continuò senza nuove iscrizioni dopo quella del ‘91. Nel frattempo era emerso il problema del Consiglio di Stato, presso il quale era stato messo in dubbio il diritto ai privati di gestire scuole di specializzazione in psicoterapia. Noi avevamo fatto la domanda di riconoscimento e nel novembre del ‘94 la scuola ricevette il parere positivo della commissione del MURST. La firma del decreto venne bloccata a causa dei ricorsi che erano stati fatti al Consiglio di Stato.

Per la scuola dell’UPS nella primavera del ‘74 avevo suggerito un percorso diverso da quello della commissione MURST e ciò fruttò il riconoscimento della scuola universitaria a metà novembre del 1974.

La previsione e il canale suggerito aveva funzionato. La scuola dell’IFREP rimase tra i cosiddetti ”guadisti”, approvata dalla commissione ma senza la firma del ministro.

Le ultime scuole che ottennero la firma furono quelle approvate dalla commissione nella riunione di settembre ‘94. Noi avevamo le carte in regola, ma per alcuni cavilli, l’approvazione venne rimandata a ottobre. Ciò ci costò un ritardo di quattro anni della firma del Ministro.

Per noi ciò fu un dramma, soprattutto perché vi erano delle persone iscritte. Potete leggere un paragrafo di un articolo che ho scritto nella rivista, dove mi lamento con lo Stato italiano che, per la sua lentezza e per il suo non intervento, ci aveva messi nella condizione di dover far venire terapeuti stranieri in Italia. Infatti, c’era una legge in cui veniva stabilito che si poteva fare il training in altri paesi della Comunità Europea, una volta ottenuto il riconoscimento all’esercizio della professione da quei paesi, era possibile esercitare la professione dove si vuole nella Comunità.

Pertanto dissi, ad alcuni dei nostri allievi che si fidavano di noi, “andiamo a fare il training in Spagna”. Noi, come istituto, avremmo dato un contributo del 30% ed il resto lo davamo agli allievi per conseguire il diploma all’estero presso l’Università di Barcellona. La cosa poteva funzionare e si creò una struttura di fattiva collaborazione con l’Università di Barcellona. Dopo un anno, anche questa soluzione cominciò a essere scrutinata, perché qualcuno andò al Ministero a dire che vi erano degli italiani che facevano formazione all’estero per poi lavorare in Italia.

Nella nostra storia ricordo il 1997 come l’anno nero, perché fu un anno molto difficile; fu l’unico anno in cui andammo in passivo di 60 milioni, ed eravamo pronti a chiudere e muoverci in direzioni completamente diverse. Probabilmente ci saremmo orientati verso attività aziendali, forse saremmo morti. Invece, per quanto riguarda gli allievi che rimanevano in formazione, avevamo trovato un’altra soluzione: in quello stesso anno riuscii ad avere un accordo con l’Università Salesiana, in base al quale, quelli che erano iscritti all’ IFREP, potevano essere iscritti presso l’Università, anche con effetto retroattivo. In questo modo trovammo una soluzione per quelli che si erano fidati di noi e si erano imbarcati con l’esperienza costosa di Barcellona. A quel punto sospendemmo il progetto di Barcellona.

Racconto tutto questo per sottolineare ancora una volta come, per me, l’aspetto più importante del lavoro sono le persone; in quel momento era prezioso, per noi, rispondere proprio a quelle persone che ci avevano dato fiducia. Siamo al servizio di coloro che hanno voglia di crescere e diventare autonomi.

Nel 1998 si aprì una “nuova era”. Si sbloccò il problema del Consiglio di Stato, che riconobbe che la legge dell’89 era, a pieno diritto, interpretabile a favore dell’esistenza delle scuole private.

Per noi era stata sicuramente una vittoria molto grossa l’essere riusciti a sistemare all’Università gli allievi del ‘97 iscritti all’ IFREP, perché a quei tempi l’Università Salesiana era l’unica, oltre alle Università di Stato, che dava dei diplomi riconosciuti in Italia.

Il ‘98 è stato per noi il passaggio del Mar Rosso.

Ora stiamo andando avanti con molta speranza e gloria grazie ai nostri allievi, che sono bravi, intelligenti, e pieni di idee. Andiamo avanti soprattutto grazie ad una collaborazione stretta tra uno staff

altamente qualificato ed allievi motivati professionalmente.

Una quindicina dei docenti dello staff hanno fatto esperienze simili alle mie, molto più brevi, in California, non tanto perché pensassi che avevano moltissimo da imparare in California, ma per verificare di prima mano che la formazione acquisita qui era solida, era sana, tanto quanto quella del “paese dei sogni”. Abbiamo avuto la riprova di questo anche in tempi recenti quando siamo stati messi a confronto con gli altri paesi europei: i nostri sono sempre usciti tra i più qualificati professionalmente.

Dal 1989 siamo affiliati alla European Association for Transactional Analsysis, affiliazione che ci ha permesso di confrontarci con diversi Analisti Transazionali a livello europeo. Oggi siamo il gruppo più folto di Analisti Transazionali in Italia: costituiamo oltre il 70% dei soci AT italiani, oltre il 75% degli analisti transazionali italiani, oltre il 10% dei soci europei.

Questo significa che c’è della gente che continua a confrontarsi, che continua a mettersi nella posizione di creare idee, ed il piccolo convegno di oggi credo sia una prova del fatto che cominciamo a lasciare dei segni nell’Analisi Transazionale e che stiamo creando cultura. Vorrei rimarcare che siamo “anche Analisti transazionali”, nel senso che guardiamo ad orizzonti più ampi. Credo che come esseri umani, siamo così complessi da non poter essere inseriti nella scatoletta di un modello, e credo che è più importante “attingere da ogni scatoletta le perle che ci sono dentro, così da farne una collana che mostra quanto sono belle le persone che le portano e quanto sono capaci e competenti”.

Quale sarà il prossimo futuro?

Ritengo che sarà bello, che sarà un futuro nel quale bisognerà lottare. Siamo sempre su un’altalena, dovremo sempre misurarci con una caverna e con una pianura: nella caverna ci si rifugia, si pensa, si riflette e nella pianura si lotta con le belve. E’ importante saper fare la spola tra il rintanarsi ed il lottare.

Credo che sia questo il futuro che ci attende.

Siamo in una fase di passaggio, da una gestione un po’ centralizzata ad una gestione un po’ meno centralizzata, ma ancora fortemente coordinata. Prevedo che in futuro faremo gruppo, saremo un’unione di persone che hanno le loro autonomie e anche la capacità di fare una forte dialettica italiana; spero soprattutto che non diventeremo centri di potere che vanno all’arrembaggio in ordine sparso, ma persone che sanno coagularsi in forze creative capaci di giocare sull’altalena della vita.

Speriamo di essere presto un faro a Palermo e a Bologna, anche se mi sento un po’ deluso dalla logica con cui veniamo percepiti, dal momento che non siamo stati riconosciuti a Palermo per le stesse identiche ragioni per le quali prima siamo stati riconosciuti a Venezia ed a Cagliari.

Ci daremo da fare come in passato, con la prospettiva di dare spazio alle persone di diventare creatori, autonomi e capaci di costruire questo mondo; di essere davvero messaggeri di genuina globalizzazione: un impegno a dialogare senza spaccare vetrine, a condividere beni senza derubare, ad arricchire senza manipolare, ad innovare senza distruggere. Questo è ciò che per me significa essere assertivi e non competitivi, essere fedeli al principio vita mea, vita tua.

Vita mea vita tua è la stella che possiamo seguire.

Ho condiviso con voi alcuni miei modi di vedere e le esperienze che mi hanno guidato nel creare quello che insieme abbiamo realizzato.

Il mio augurio è che le lotte e il successo del passato ci siano di incoraggiamento per le lotte e il successo del futuro.